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Come capire i segni dei tempi

9 Novembre 2013 , Scritto da DimorareinDio Con tag #Varie

di EGIDIO PICUCCI
«La nostra assemblea ha fatto memoria del Vaticano II non come una realtà passata, ma come una realtà attiva che dà senso al presente, cioè come ermeneutica dell’oggi». È il riassunto rapido e indovinato che il monaco camaldolese Giovanni Dal Piaz ha fatto della cinquantatreesima assemblea generale della Conferenza italiana superiori maggiori(Cism) che si è tenuta dal 4 all’8 novembre scorsi ad Abano Terme.
 L’assemblea, cui hanno partecipato oltre cento ministri provinciali «aveva a cuore — ha detto il monfortano Pierluigi Nava — due obiettivi: non fermarsi solo a un dato commemorativo dei cinquant’anni del Vaticano II, ma recuperare, per quanto possibile, un lessico caro al grande teologo Yves Congar, che definì il Concilio un evento di ressourcement, parola che noi abbiamo tradotto con un “ritorno alle fonti”, ma che non ridà pienamente lo slancio contenuto nel termine francese. Il secondo obiettivo, impegnativo e forse anche ambizioso, si riallaccia a una considerazione del teologo Christoph Theobald, secondo il quale il concilio ci ha indicato e lasciato in eredità un modo particolare di fare esperienza della Chiesa. La trasmissione della fede, diciamo pure la generazione della fede, avviene secondo una struttura relazionale, cioè che si fonda sul modus agendi di Cristo stesso. La pratica pastorale non viene, quindi, dopo una riflessione sulla fede, ma è dentro quella logica che situa al centro della fede stessa la sua applicazione».
 È stata molto opportuna, allora, la scelta del tema, visto che c’è ancora molto da scoprire e in buona parte ancora da attuare, «perché dagli anni Novanta — spiega don Beppe Roggia — dopo l’aggiornamento delle costituzioni, i consacrati si sono messi a correre in mille forme e in mille direzioni, passando di disillusione in disillusione, senza aspettare che la Chiesa li affiancasse. Si sono come ripiegati su se stessi, lamentando la diminuzione delle vocazioni, l’invecchiamento delle fraternità, la difficile e quasi impossibile gestione delle case. E hanno aperto una specie di faglia con il concilio. Ritornare sull’evento, e in maniera intelligente come si è fatto nell’assemblea, è saldare quella falla e riscoprire le attese, gli slanci e le speranze degli anni in cui l’assise conciliare si è tenuta».
 In questo senso, potrà aiutare la sorpresa di riscoprire nei documenti conciliari non un richiamo alla disciplina, tipico dei documenti tridentini, ma la spinta a una fedeltà creativa e a una fede purificata da eredità culturali ornai superate; un ritorno alle fonti “genuine” della tradizione, implicitamente poco evidenti nelle incrostazioni dei secoli e capaci di dare impulsi fedeli e purificatori. «Sarebbe una bella grazia — ha aggiunto don Roggia — scoprire che ci sono insegnamenti non capiti o interpretati male; o, anche se capiti, non assunti con la dovuta responsabilità. Per esempio la riscoperta di cosa vuol dire interpellare i “segni dei tempi”, con tutta quella dimensione che mette in gioco una capacità e una metodologia di discernimento sia a livello personale che a livello comunitario e di istituto, è un fatto che forse mai in questi cinquant’anni è stato capito nella sua giusta portata. Come tutti, anche noi consacrati restiamo colpiti da certe situazioni che noi stessi viviamo, ma come tutti, ne facciamo una lettura sociologica che non può darci risposte né profonde, né carismatiche, né spirituali. Oppure ci rifugiamo in uno spiritualismo che è una specie di fuga dalla realtà e non tiene conto di quanto sta accadendo, che guarda al futuro senza un ancoraggio al presente».
 Ovviamente, è stato osservato nel corso dell’assemblea, questo non vuol dire che in cinquant’anni non si è fatto nulla; sì è fatto certamente qualcosa, ma non raramente limitato a cambi esteriori: vestiti, orari, maggior personalizzazione della vita consacrata, ridimensionamento. Si è frequentemente, insomma, lavorato più in superficie, senza scendere nel fondo dei problemi, come invece si sarebbe dovuto fare. «Negligenza? Rifiuto? Certamente no — aggiunge ancora don Roggia — ma piuttosto interessamento, da una parte, per le realtà ritenute umanamente più urgenti; dall’altra preoccupazione per i grandi eventi che ci coinvolgono e per l’amara costatazione che la vita consacrata non ha più quel primato “di vetrina” che aveva prima del Concilio. Lo vedo anche dal punto di vista della formazione: facendo un bilancio di questi ultimi cin- quant’anni, noto che si sono attuate molte cose, ma non si è ancora penetrati in quella dimensione che la Perfectae caritatis chiede: arrivare, cioè, al cuore della persona per la realizzazione di un mondo nuovo». Non è perciò fuori luogo o addirittura un’accusa, allora, dire che anche le diverse comunità cristiane «hanno forse giocato in questa direzione, per cui anche loro sono preoccupate di risolvere problemi immediati e non si accorgono, per esempio di quanta parte positiva la vita consacrata riversa nelle parrocchie e nelle diocesi, spesso in modo nascosto ma efficace».
(©L'Osservatore Romano 10 novembre 2013)
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