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Quaresima, una geografia della conversione

1 Marzo 2014 , Scritto da DimorareinDio Con tag #Varie

Senza pretese di rigore esegetico né storico-liturgico, provo a sostare nei luoghi suggeriti dai vangeli del lezionario domenicale della quaresima imminente; e lì ascoltare le voci che vi risuonano, in una sorta di geografia della conversione: questa nasce pur sempre dal comandamento fondamentale – «Ascolta, Israele... Oh, se ascoltaste oggi la sua voce...» (cf. Dt 6,4; Sal 95,7) –, ma la voce risuona nei luoghi della vita dell’uomo, a volte più chiara e distinta, altre volte mescolata con altre voci e persino nascosta in altre voci, così profondamente umane da essere lo strumento più adatto per quella che, invitando alla conversione, promette e anzi già dischiude la gioia pasquale.
 
Il deserto
 Guardata attraverso i luoghi evangelici, la quaresima propone un itinerario che parte da una doppia estraniazione (il deserto, la montagna), per riportare poi nei luoghi “ordinari”, persino banali, della vita dell’uomo (il pozzo, la città, la casa...). È come se la parola di Dio ci suggerisse che, per abitare nel modo giusto i luoghi della nostra vita quotidiana, bisogna lasciarsene strappare, accettare una sorta di esilio.
 Estraniazione “orizzontale”, anzitutto: quella del deserto. Essa significa anche l’estraniazione della parola, e dunque il silenzio. Anzi, proprio questo potrebbe essere oggi il vero deserto. Provare a far tacere tutto: non solo le voci fisiche (quasi impossibile, in un mondo il cui “paesaggio sonoro” è dominato dal suono continuo, onnipervasivo), ma anche e soprattutto gli innumerevoli devices ai quali è perennemente connessa la nostra esistenza.
 Deserto come disconnessione, mancanza di “campo”, batterie esaurite senza possibilità di ricarica... L’unico modo, forse, per riscoprire che cosa ha voluto dire, per Israele, l’esperienza del deserto come mancanza delle cose più elementari e necessarie all’uomo, e dunque tempo della “prova”, tempo che porta a scoprire cosa c’è nel cuore dell’uomo (cf. Dt 8,2); condizione di rischio, perché, in un luogo mancante di confini e di riferimenti visibili, e soprattutto in un silenzio vertiginoso, irreale, si rischia di scoprire che la propria voce non è molto diversa da quella del tentatore, che tra i nostri desideri nascosti e le sue seduzioni non c’è, poi, tanta differenza.
 Portare nel deserto quaresimale le parole delle Scritture, riempire del loro ascolto il silenzio vuoto e farle diventare, poco alla volta, la nostra parola – come le risposte di Gesù al tentatore – potrà essere un buon antidoto, e la mappa sicura per non smarrirsi in un’assenza di piste dalla quale nessun “navigatore”, per quanto tecnologicamente avanzato, può veramente orientarci.
 
La montagna
 Seconda estraniazione, sulla direttrice verticale: l’alta montagna (cf. il vangelo della trasfigurazione: Mt 17,1-9). La quaresima come ascensione, lasciando a valle ciò che ci lega alla vita di sempre (così dovranno fare Abramo e Isacco, arrivando in vista della montagna indicata da Dio al patriarca: cf. Gen 22,3-4), per intraprendere la salita faticosa verso l’altura pasquale. La figura ascensionale permette, a sua volta, una comprensione sensata delle “privazioni” quaresimali: perché non si sale bene in alta quota, se si è sovraccarichi e se non è stata scelta l’attrezzatura giusta.
 Poi, quanto più si sale, uscendo dall’ombra protettrice dei boschi, tanto più il paesaggio cambia, e la visuale si trasfigura. In una giornata luminosa, l’aria si fa tersa, il sole accecante, la luce abbacina, soprattutto se ci si avvicina alle altezze – sempre più in su – delle nevi perenni. Si riesce ad immaginare, almeno per frammenti, qualcosa di ciò che hanno potuto vedere i discepoli che hanno seguito Gesù fino alla vetta: il volto brillante come il sole, il biancore luminoso delle sue vesti (cf. Mt 17,2-3), l’ebbrezza di stare in cima al mondo...
 La quaresima offre qui anche il suo aspetto di avventura dello spirito, di ascensione appassionante, che fa passare in secondo piano la fatica del percorso. Qui le voci si fanno più chiare e distinte, non ci sono più le ambiguità del deserto: la gioia del discepolo al quale si dischiude tutta la bellezza, di solito velata, che splende sul volto del Maestro; la Voce che dalla nube lo conferma e lo addita come oggetto del compiacimento del Padre e Parola offerta all’ascolto dei discepoli e dell’umanità tutta; e la voce stessa di Gesù, che congiunge la forza della rivelazione («Non temete!») con il tocco umano e incoraggiante,1 che fa rialzare i discepoli tramortiti dalla chiarezza luminosa della Parola.
 Nel luogo montano Matteo ha raccolto alcuni snodi decisivi del suo racconto: dalla montagna che ha dato il nome al primo grande discorso di Gesù (cf. 5,1ss), passando per il monte della preghiera (cf.14,23) e del pane moltiplicato (cf.15,29), e quello della trasfigurazione fino al luogo dell’ultimo incontro del Risorto con i discepoli (cf.28,16), l’indicazione è sicura: è un sentiero che vale la pena percorrere, per incontrarvi il Dio-con-noi e ascoltarne la voce attraverso la quale Dio continua a parlare agli uomini.
 
Il pozzo
 Deserto e montagna sembrano luoghi “estremi”: guardata attraverso di essi, la quaresima assume la fisionomia di un allontanamento, di un’estraniazione dalla vita ordinaria. Non c’è il rischio che diventi impraticabile, o che sembri possibile solo ad alcuni “eletti”, o che si presenti avventura solitaria, individuale?
 L’appuntamento con i grandi testi giovannei delle ultime tre domeniche di quaresima, che il lezionario propone nel ciclo delle letture domenicali di quest’anno, ci mette in un orizzonte diverso. Ridiscesi con Gesù e i discepoli dal monte (cf. Mt 17,9), ci ritroviamo in luoghi molto più ordinari, dove la parola ritrova una dimensione più “umana” – o, per lo meno, così ci sembra: il che domanda, forse, maggior discernimento.
 Luoghi di incontro e di scambio: come i pozzi, che hanno un ruolo importante nelle storie bibliche, specialmente in quelle dei patriarchi – a uno di loro, il capostipite delle tribù di Israele, si deve il “pozzo di Giacobbe” dove Gesù incontra la donna di Samaria (cf. Gv 4,3-42: vangelo della terza domenica). E, come intorno alle fontane ancora presenti in certi paesi soprattutto alpini, o presso i più prosaici punti di distribuzione dell’acqua potabile in certi paesi dell’Africa, anche davanti a questo pozzo si intreccia la conversazione, partendo da cose molto banali: «Dammi da bere... Dov’è tuo marito?...».
 Poi si scopre che quelle cose non sono tanto banali: l’acqua, il pozzo, il marito, le provviste per il viaggio, il frumento che matura nei campi... tutto dischiude un mondo, anzi il mondo di Dio e della rivelazione del suo amore per l’uomo. I luoghi e le cose possono essere quelli di sempre, le voci non molto diverse da quelle della vita quotidiana: eppure, per chi sa mettersi in ascolto, tutto cambia.
 Paradossalmente, a questo ascolto si apre più la donna – un po’ sfrontata, un po’ chiacchierona, certamente in posizione piuttosto “irregolare” quanto a situazione matrimoniale e appartenente a un popolo di “eretici” – che non i discepoli ancora piuttosto ottusi: ma c’è speranza per tutti, e la quaresima viene anche a ridestare in noi un’arte dell’ascolto del Signore che rinnovi anche il senso delle cose con le quali abbiamo quotidianamente a che fare.
 
Terra di nessuno
 Possiamo riprendere, a proposito della guarigione del cieco nato (quarta domenica di quaresima), la fortunata metafora dei “non luoghi”?2 Delle cinque pagine evangeliche che scandiscono le domeniche della quaresima di quest’anno, questa è, a un tempo, la più densa di voci e la più rarefatta, quanto a indicazioni geografiche.
 Alla fine del c. 8, l’evangelista ha accennato all’uscita di Gesù dal tempio (cf. Gv 8,59); di seguito, ve lo ritroveremo (cf. 10,23) senza che, peraltro, ci sia stato detto quando e come vi è tornato. Dov’è che Gesù, passando, vede questo cieco? Dove sono dette le molte parole che ascoltiamo in questo capitolo? Nulla è specificato, anche se la duplice menzione della fonte di Siloe – col suo rinvio all’acqua di vita offerta da Dio nel suo Inviato – ci fa capire che siamo a Gerusalemme.
 Ma è come essere, per certi versi, in una qualsiasi altra città e in qualsiasi luogo anonimo: il terminal di un aeroporto, i corridoi di un centro commerciale, l’atrio di una grande stazione ferroviaria... Le parole si sovrappongono, confuse, in frammenti di individui o gruppi giustapposti, in centri di interesse effimeri e mutevoli. Quasi tutti sono in movimento, ma l’insieme degli spostamenti appare privo di un senso afferrabile.
 Viene da chiedersi se non ci sia una relazione tra l’incapacità di vedere, di cui è questione (a vari livelli di senso, secondo il modo di narrare tipico del quarto evangelista) in tutto il racconto giovanneo, e questa “mancanza di luogo”. Se, in altre parole, non sia proprio la cecità a creare una sorta di “terra di nessuno”, dove non si s bene come indirizzare i propri passi. Gesù stesso dirà, più avanti, con parole che riecheggiano l’inizio dell’episodio del cieco nato: «Se uno cammina di giorno, non inciampa, perché vede la luce di questo mondo; ma se cammina di notte, inciampa, perché la luce non è in lui» (cf. 11,9-10).
 Gesù è luce del mondo nel suo stesso sguardo: «Passando, vide un uomo cieco dalla nascita...» (9,1); un cieco che, forse, faceva parte del “paesaggio”, e che nessuno vedeva più, in questo luogo anonimo. Ma lo sguardo di Gesù non si accontenta della vista d’insieme: cerca il particolare, vuol far uscire dall’anonimato (cf. Mc 5,43), apre lo sguardo sulla storia della persona, perché in essa l’opera di Dio può manifestarsi: e non importa che questo avvenga in un non-luogo riempito di chiacchiere confuse.
 La Parola, che sembra soffocata dalle molte discussioni – Gesù parla pochissimo, in questo episodio: solo nei primi versetti, e poi nelle battute finali col cieco e con i farisei – trova il modo di riemergere, aprendo alla luce e indicando al contempo gli angoli bui. Forse è destino del nostro tempo che il chiacchiericcio appaia così confusamente inestricabile e dispersivo, che le zone d’ombra e quelle di luce non siano sempre così distinte come vorremmo. L’importante sarebbe non perdere l’appuntamento con la domanda decisiva: «Tu, credi nel Figlio dell’uomo?». La quaresima ci è data anche per ritrovare il filo conduttore di questa domanda e poter dire anche noi nella notte di Pasqua, lo sguardo illuminato dalla fede: «Credo, Signore!» (cf. Gv 9,36-38).
 
La casa e il sepolcro
 Betania è, per Gesù, il luogo degli affetti, dove condivide la comunione della mensa (cf. Gv 12,1-2), dove offre e riceve conforto e amicizia: «Gesù amava Marta e sua sorella e Lazzaro» (11,5). Se mai c’è stato un luogo dove colui che non aveva una pietra dove posare il capo potesse sentirsi “a casa”, questa era, almeno per il quarto vangelo, la dimora di Betania.
 In un luogo così, la parola rivolta a Gesù può diventare persino rimprovero discreto (cf. 11,21.32); in un luogo così, la voce del Signore può, a un tempo, proclamare parole inaudite – «Io sono la risurrezione e la vita; chi crede in me, anche se muore, vivrà; chiunque vive e crede in me, non morirà in eterno» (11,25-26) – ed essere rotta dal turbamento e dai singhiozzi del pianto (cf. 11,33-35).
 La geografia della quaresima, in definitiva, potrebbe condurre a questo: accettando l’estraniazione orizzontale del deserto e verticale della montagna, e poi seguendo pazientemente Gesù nelle vie e nei luoghi (compresi i non-luoghi) dell’esistenza quotidiana degli uomini, ritrovarsi nella dimora insieme intima, familiare e accogliente pure verso altri (perché così, anche, ci appare la casa di Betania) della nostra amicizia con il Signore.
 Senonché, l’ultimo luogo al quale siamo condotti non è la casa, ma un altro e drammatico: la tomba. L’ultimo anche nel senso più concreto che ci sia, l’ultimo indirizzo, per così dire, della nostra presenza visibile in questo mondo.
 Il Signore ha liberato almeno provvisoriamente l’amico Lazzaro da quella che ci si presenta molto più come prigione che come casa. Non lo ha fatto, però, per aprirsi e aprirci una magica via di fuga: lui stesso, di lì a poco, lascerà rotolare su di sé la pietra sepolcrale.
 Ma la sua voce potente (cf. 11,43), che chiama Lazzaro alla vita, promette al credente un’altra dimora (cf. Gv 14,1-3), quella della vita piena nel Figlio risorto: e così il pellegrinaggio quaresimale conduce fino al sabato santo, presso il sepolcro del Signore, nel silenzio raccolto che lascia presagire il suono dell’alleluia pasquale.
Daniele Gianotti
 
(dalla rivista SETTIMANA, n. 4/03, 2 marzo 2014, pp. 1 e 16, Edizioni Dehoniane Bologna)
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