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Padre nostro. Signore che dona, al plurale

17 Febbraio 2014 , Scritto da DimorareinDio Con tag #Preghiera

di Bruno Maggioni
 
Il Padre Nostro ci è giunto in due forme: quella di Matteo (6,9-13) e quella di Luca (11,2-4). La prima è più ampia e strutturata, la seconda più breve. La diversità fra le due versioni ci dice che i primi cristiani non erano rigidamente attaccati alle precise parole, ma alla sostanza. Il Padre Nostro non è semplicemente una preghiera da recitare. È un riassunto dell’intero Vangelo, e ogni sua frase deve essere accuratamente meditata e compresa. Lo faremo, in questo e nei prossimi numeri di Italia Caritas.
 Nella versione di Matteo, il Padre Nostro si apre con un’invocazione e si snoda in sette domande: le prime tre hanno come oggetto il Regno, le ultime tre il perdono e la vittoria sul male, al centro c’è la richiesta del pane di ogni giorno.
Giustamente si è osservato che queste domande hanno molti paralleli nelle preghiere bibliche e giudaiche: la preghiera insegnata da Gesù è profondamente radicata nelle tradizioni del suo popolo. Pietre antiche, costruzione nuova.
 Il Padre Nostro è una preghiera essenziale, senza retorica (così facile nelle preghiere!), né una parola di troppo. È una preghiera umile, ma anche disinvolta, coraggiosa, serena, di un figlio che si rivolge al Padre. Però non è facile recitare il Padre Nostro nella sua verità: che il Regno venga è davvero il nostro grande desiderio, sopra ogni altro? Davvero ci occorre – e ci basta! – il pane per ogni giorno? Davvero abbiamo perdonato ai nostri debitori? Chi recita il Padre Nostro comprende di essere un figlio peccatore. Tuttavia sa di essere veramente figlio, amato dal Padre: la sua preghiera è confidente, a testa alta.
 
Figlio, sempre figlio
Padre: gli attributi di Dio sono tanti. Non è però accumulandoli che si comprende meglio chi è il Dio di Gesù Cristo. Padre è veramente il titolo che definisce Dio nel pro-fondo. Dio è giudice, certamente, Onnipotente, Signore del mondo: ma questi titoli perdono la loro verità se non sono letti a partire dalla paternità. Perché la signoria di Dio non è per dominare, ma per donare, sempre per donare. La sua onnipotenza è quella dell’amore, la sua giustizia è per offrire il perdono. Padre è il nome di Dio, e figlio, sempre figlio, è il nome dell’uomo che lo prega.
 Si è figli quando si avverte che all’origine della propria esistenza non c’è stato il caso o la necessità, ma una decisione libera, un atto di amore. Da qui la radice della nostra libertà, della serenità e della sicurezza che ci dovrebbero accompagnare per tutta la vita. Ma la paternità di Dio si esprime al plurale: Padre nostro. Il Padre è insofferente delle discriminazioni: fa sorgere il sole sopra i buoni e sopra i cattivi. E vuole che anche i suoi figli si rivolgano a Lui da fratelli. Per questo tutte le richieste sono al plurale, anche la domanda del pane, del perdono e dell’aiuto nella prova. La preghiera cristiana è necessariamente una preghiera fraterna. Per tale motivo costruisce comunione. Dio rifiuta di essere invocato al di fuori del “nostro”. Respinge chi pretende di raggiungerlo da solo.
 Ma nella preghiera che Gesù ci ha insegnato c’è anche la consapevolezza che colui che è Padre nostro è anche il Signore che è nei cieli. L’essere amati da Dio è dunque un’immensa e gratuita degnazione, cosa che impedisce di trasformare la grazia della sua paternità in spirito di gretto settarismo. La consapevolezza che Colui che abita nei cieli ed è il Signore di tutte le cose è nostro Padre, deve aprirci alla fiducia e alla serenità, al senso della provvidenza. Certo, anche all’obbedienza e all’umiltà. Ma un’umiltà che non ci schiaccia nella nostra dignità, bensì ci allarga.
 
(da Italia Caritas, Mensile della Caritas Italiana, Febbraio 2011, p. 6)
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