Abramo, modello dell'uomo ospitale
Un midrash così tratteggia la figura di Abramo: “La casa di Abramo era aperta ad ogni creatura umana, alla gente di passaggio e ai rimpatrianti, e ogni giorno arrivava qualcuno per mangiare e bere alla sua tavola. A chi aveva fame egli dava del pane e l’ospite mangiava e si saziava. Chi arrivava nudo in casa suo era da lui rivestito e da lui imparava a conoscere Dio, il creatore di tutte le cose”. In questo splendido ritratto Abramo è raffigurato come l’ospite per eccellenza, che accogliendo tutti nella propria casa, a tutti insegnava a “conoscere Dio”: a fare cioè esperienza dell’ospitalità divina che si offre come ospitalità da imitare. Accogliendo lo Straniero alle Querce di Mamre (cfr. Gn 18), Abramo compie una serie di azioni che delineano l’uomo ospitale, la sua nuova coscienza e identità.
Il primo tratto dell’uomo ospitale è di tenere aperta la porta della propria casa. Un commento rabbinico si chiede come mai, nell’ora più calda del giorno, Abramo sedesse all’ingresso della tenda e non si trovasse, piuttosto, al suo interno per ripararsi dal caldo. La risposta è: per stare allerta, per vigilare perché, scorgendo qualcuno da lontano, potesse invitarlo subito nella propria tenda, offrendogli riparo al più presto. Stupenda metafora dell’uomo ospitale che veglia e che – vegliando - si risveglia dal torpore del proprio “io” che riposa su sé e vigila sull’altro. Un altro testo si interroga sul numero delle porte della tenda di Abramo e risponde che erano quattro – corrispondenti ai quattro punti cardinali - perché i passanti potessero entrarvi subito e facilmente da qualsiasi parte provenissero. Ospitale è l’uomo la cui “casa” non è più il luogo ove egli abita nel chiuso rapporto egoistico con se stesso (non senza significato i francesi chiamano la casa “chez soi”), ma lo spazio che, aperto dall’altro, si apre all’altro. Le chiavi delle porte di questo luogo non sono più strumenti che chiudono (dal latino claudere, che riproduce il movimento della mano che stringe e si rinserra), ma strumenti che aprono (dall’ebraico patah, che vuol dire dissertare e perciò aprire). La risposta al problema immane dei poveri, perseguitati e affamati, che dal terzo mondo invadono e sempre più invaderanno l’occidente, prima che in leggi ferme e efficaci, va individuata nella coscienza di uomini, nelle cui casenon ci siano chiavi che chiudono bensì porte che si aprono.
Il secondo tratto dell’uomo ospitale è di dare il benvenuto: “Appena Abramo li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra dicendo: Mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi non passare oltre senza fermarti dal tuo servo”. Ospitale è chi non teme l’altro come intruso da cui proteggersi con le armi della diffidenza, del pregiudizio, del razzismo, della forza e violenza, ma gli dà il benvenuto, riconoscendolo come colui che – per lui - è il ben-venuto, perché venendo a lui ed entrando nella sua casa, gli porta bene, introducendolo ed elevandolo al bene come bontà e disinteressamento. Per questo l’ospite è sacro: perché proviene da un mondo altro dal mondo umano e – entrando in esso - vi introduce la dimensione della bontà che rifonda. Per questo Abramo si rivolge allo Straniero che lo visita, prostrandosi ai suoi piedi e chiamandolo “mio Signore” e supplicandolo di fermarsi. Nel volto dello Straniero – accolto e ospitato - risplende il volto del Maestro, che insegnando all’uomo la bontà, gli dischiude l’unico sapere della vita che conta: quello della bontà, inteso come conoscenza che la vera sapienza è la bontà. La risp osta al dramma e alla conflittualità nelle relazioni umane (“Gli altri sono il nostro inferno” dice Sartre) più che in nuovi equilibri e confini, è da ricercare nella coscienza della bontà e della gratuità, come realtà più alta e nobile della coscienza della reciprocità e dello scambio.
Il terzo tratto dell’uomo ospitale è di accorgersi di ciò di cui l’altro ha bisogno”. Accorgersi del bisogno dell’altro è portarsi con il cuore là dove l’altro è bisogno e soffre, rispondendo al suo bisogno e colmandolo. In uno dei racconti chassidici, Martn Buber narra di un discepolo che spesso amava dire al suo maestro quanto lo amasse. Un giorno il maestro gli chiese a bruciapelo: “Sai tu cosa mi fa male?”. E al diniego sorpreso del discepolo, il maestro commentò amaro: “Come puoi dire di amarmi se non sai ciò che mi fa soffrire e non fai nulla per eliminarlo?”. Avvicinare chi soffre e soccorrerlo non solo trascende e invera il principio di tolleranza – di cui oggi assieme alla necessità si coglie l’insufficienza - ma è messa in crisi e sconfitta l’indifferenza per la quale è irrilevante che l’economia di mercato – assunta come dogma - provochi moltissimi poveri e emarginati. Interrogandosi perché Dio abbia abbattuto la torre di Babele, un midrash racconta: “Un giorno il Signore passò presso la torre e vide che gli uomini che cadevano dalle impalcature non erano pianti, mentre un mattone cotto caduto trovava grande pianto. Allora maledisse gli uomini e li disperse su tutta la terra. Il vero male dell’umanità è l’indifferenza, la percezione della non differenza tra l’umano e il non umano. Per questo essa va male-detta e bandita perché dove le si riconosce cittadinanza, si fa distruzione e morte.
Il quarto tratto dell’uomo ospitale è di fare spazio all’altro, limitando il proprio. Allo Straniero, Abramo offre la tenda e lo fa sedere sotto il suo albero, mentre lo serve, coinvolgendo in questo anche Sara. Ospitale è l’uomo che, uscendo dal proprio egoismo, orienta la propria azione verso l’altro. Senza questa conversione e inversione di marcia, non è possibile l’ospitalità e l’Altro non trova posto nella tenda, perché in essa – metafora della soggettività dell’io - c’è posto solo per i simili, quelli nel cui volto, come Narciso, l’io si riflette e prolunga la sua immagine. L’altro trova posto nella tenda, solo se l’uomo esce come Abramo dalla propria tenda, e non è più occupato e preoccupato di sé, ma si occupa e preoccupa dell’altro. Per questo nella bibbia la Parola di Dio si dà sempre come ordine e comandamento, perché con la sua trascendenza interrompe l’egoismo del cuore e lo eleva all’altezza della responsabilità verso l’altr o, aprendogli lo spazio dell’accoglienza o ospitalità. La risposta alla crisi dell’uomo d’oggi e alla sua ricerca spasmodica di felicità, più che nel potenziamento del desiderio, è da cercare nella sua limitazione e critica, attraverso cui elevarsi alla responsabilità di uomo ospitale.
L’ultimo tratto dell’uomo ospitale è di donare quello che ha, togliendosi il pane dalla propria bocca e condividendolo. Ospitale è l’uomo che, disponendo di pane e vino, simboli dei beni necessari - se ne spossessa, sottraendoli alla propria bocca per donarli allo straniero che ne è privo. È qui, nello spossessamento come donazione, il senso ultimo e più profondo dell’ospitalità e dell’uomo ospitale: un uomo che, libero dall’egoismo che lo incatena a sé, va verso l’altro a mani piene, instaurando con lui una relazione che coinvolge il mondo e che coincide con una certa forma di vita economica. Il problema della fame nel mondo non può essere risolto solo con la tecnologia, se questa non si associa con il sorgere di uomini ospitali convinti che ciò che si ha, lo si ha per donare e che la relazione umana – più che spirituale - è sempre una relazione materiale ed economica. “Ci si può chiedere se vestire gli ignudi e dar da mangiare agli affamati non ci avvicini al prossimo più di quanto riesca a fare la relazione spirituale proposta da Buber. Il fatto di dire “Tu” attraversa il mio corpo fino alle mani che donano, al di là della voce. E questo è conforme alla verità biblica. Incontro al volto di Dio non bisogna andare a mani vuote. Anche il Talmud proclama che dar da mangiare è una cosa grandissima e che l’amare Dio con tutto il cuore e con tutta la vita è superato a sua volta dall’amarlo con tutto il proprio denaro”. È conforme all’invito di Cristo: “Una cosa ancora ti manca: vendi tutto quello che hai, e donalo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi”. Solo in Dio – fonte di ogni ospitalità - l’uomo trova il senso della propria vocazione: essere ospite di Dio e amare l’altro come Dio lo ama.