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Abramo, modello dell'uomo ospitale

5 Gennaio 2015 , Scritto da DimorareinDio Con tag #Riflessioni teologiche

Un midrash così tratteggia la figura di Abramo: “La casa di Abramo era aperta ad ogni creatura umana, alla gente di passaggio e ai rimpatrianti, e ogni giorno arrivava qualcuno per mangiare e bere alla sua tavola. A chi aveva fame egli dava del pane e l’ospite mangiava e si saziava. Chi arrivava nudo in casa suo era da lui rivestito e da lui imparava a conoscere Dio, il creatore di tutte le cose”. In questo splendido ritratto Abramo è raffigurato come l’ospite per eccellenza, che accogliendo tutti nella propria casa, a tutti insegnava a “conoscere Dio”: a fare cioè esperienza dell’ospitalità divina che si offre come ospitalità da imitare. Accogliendo lo Straniero alle Querce di Mamre (cfr. Gn 18), Abramo compie una serie di azioni che delineano l’uomo ospitale, la sua nuova coscienza e identità.

Il primo tratto dell’uomo ospitale è di tenere aperta la porta della propria casa. Un commento rabbinico si chiede come mai, nell’ora più calda del giorno, Abramo sedesse all’ingresso della tenda e non si trovasse, piuttosto, al suo interno per ripararsi dal caldo. La risposta è: per stare allerta, per vigilare perché, scorgendo qualcuno da lontano, potesse invitarlo subito nella propria tenda, offrendogli riparo al più presto. Stupenda metafora dell’uomo ospitale che veglia e che – vegliando - si risveglia dal torpore del proprio “io” che riposa su sé e vigila sull’altro. Un altro testo si interroga sul numero delle porte della tenda di Abramo e risponde che erano quattro – corrispondenti ai quattro punti cardinali - perché i passanti potessero entrarvi subito e facilmente da qualsiasi parte provenissero. Ospitale è l’uomo la cui “casa” non è più il luogo ove egli abita nel chiuso rapporto egoistico con se stesso (non senza significato i francesi chiamano la casa “chez soi”), ma lo spazio che, aperto dall’altro, si apre all’altro. Le chiavi delle porte di questo luogo non sono più strumenti che chiudono (dal latino claudere, che riproduce il movimento della mano che stringe e si rinserra), ma strumenti che aprono (dall’ebraico patah, che vuol dire dissertare e perciò aprire). La risposta al problema immane dei poveri, perseguitati e affamati, che dal terzo mondo invadono e sempre più invaderanno l’occidente, prima che in leggi ferme e efficaci, va individuata nella coscienza di uomini, nelle cui casenon ci siano chiavi che chiudono bensì porte che si aprono.

Il secondo tratto dell’uomo ospitale è di dare il benvenuto: “Appena Abramo li vide, corse loro incontro dall’ingresso della tenda e si prostrò fino a terra dicendo: Mio Signore, se ho trovato grazia ai tuoi occhi non passare oltre senza fermarti dal tuo servo”. Ospitale è chi non teme l’altro come intruso da cui proteggersi con le armi della diffidenza, del pregiudizio, del razzismo, della forza e violenza, ma gli dà il benvenuto, riconoscendolo come colui che – per lui - è il ben-venuto, perché venendo a lui ed entrando nella sua casa, gli porta bene, introducendolo ed elevandolo al bene come bontà e disinteressamento. Per questo l’ospite è sacro: perché proviene da un mondo altro dal mondo umano e – entrando in esso - vi introduce la dimensione della bontà che rifonda. Per questo Abramo si rivolge allo Straniero che lo visita, prostrandosi ai suoi piedi e chiamandolo “mio Signore” e supplicandolo di fermarsi. Nel volto dello Straniero – accolto e ospitato - risplende il volto del Maestro, che insegnando all’uomo la bontà, gli dischiude l’unico sapere della vita che conta: quello della bontà, inteso come conoscenza che la vera sapienza è la bontà. La risp osta al dramma e alla conflittualità nelle relazioni umane (“Gli altri sono il nostro inferno” dice Sartre) più che in nuovi equilibri e confini, è da ricercare nella coscienza della bontà e della gratuità, come realtà più alta e nobile della coscienza della reciprocità e dello scambio.

Il terzo tratto dell’uomo ospitale è di accorgersi di ciò di cui l’altro ha bisogno”. Accorgersi del bisogno dell’altro è portarsi con il cuore là dove l’altro è bisogno e soffre, rispondendo al suo bisogno e colmandolo. In uno dei racconti chassidici, Martn Buber narra di un discepolo che spesso amava dire al suo maestro quanto lo amasse. Un giorno il maestro gli chiese a bruciapelo: “Sai tu cosa mi fa male?”. E al diniego sorpreso del discepolo, il maestro commentò amaro: “Come puoi dire di amarmi se non sai ciò che mi fa soffrire e non fai nulla per eliminarlo?”. Avvicinare chi soffre e soccorrerlo non solo trascende e invera il principio di tolleranza – di cui oggi assieme alla necessità si coglie l’insufficienza - ma è messa in crisi e sconfitta l’indifferenza per la quale è irrilevante che l’economia di mercato – assunta come dogma - provochi moltissimi poveri e emarginati. Interrogandosi perché Dio abbia abbattuto la torre di Babele, un midrash racconta: “Un giorno il Signore passò presso la torre e vide che gli uomini che cadevano dalle impalcature non erano pianti, mentre un mattone cotto caduto trovava grande pianto. Allora maledisse gli uomini e li disperse su tutta la terra. Il vero male dell’umanità è l’indifferenza, la percezione della non differenza tra l’umano e il non umano. Per questo essa va male-detta e bandita perché dove le si riconosce cittadinanza, si fa distruzione e morte.

Il quarto tratto dell’uomo ospitale è di fare spazio all’altro, limitando il proprio. Allo Straniero, Abramo offre la tenda e lo fa sedere sotto il suo albero, mentre lo serve, coinvolgendo in questo anche Sara. Ospitale è l’uomo che, uscendo dal proprio egoismo, orienta la propria azione verso l’altro. Senza questa conversione e inversione di marcia, non è possibile l’ospitalità e l’Altro non trova posto nella tenda, perché in essa – metafora della soggettività dell’io - c’è posto solo per i simili, quelli nel cui volto, come Narciso, l’io si riflette e prolunga la sua immagine. L’altro trova posto nella tenda, solo se l’uomo esce come Abramo dalla propria tenda, e non è più occupato e preoccupato di sé, ma si occupa e preoccupa dell’altro. Per questo nella bibbia la Parola di Dio si dà sempre come ordine e comandamento, perché con la sua trascendenza interrompe l’egoismo del cuore e lo eleva all’altezza della responsabilità verso l’altr o, aprendogli lo spazio dell’accoglienza o ospitalità. La risposta alla crisi dell’uomo d’oggi e alla sua ricerca spasmodica di felicità, più che nel potenziamento del desiderio, è da cercare nella sua limitazione e critica, attraverso cui elevarsi alla responsabilità di uomo ospitale.

L’ultimo tratto dell’uomo ospitale è di donare quello che ha, togliendosi il pane dalla propria bocca e condividendolo. Ospitale è l’uomo che, disponendo di pane e vino, simboli dei beni necessari - se ne spossessa, sottraendoli alla propria bocca per donarli allo straniero che ne è privo. È qui, nello spossessamento come donazione, il senso ultimo e più profondo dell’ospitalità e dell’uomo ospitale: un uomo che, libero dall’egoismo che lo incatena a sé, va verso l’altro a mani piene, instaurando con lui una relazione che coinvolge il mondo e che coincide con una certa forma di vita economica. Il problema della fame nel mondo non può essere risolto solo con la tecnologia, se questa non si associa con il sorgere di uomini ospitali convinti che ciò che si ha, lo si ha per donare e che la relazione umana – più che spirituale - è sempre una relazione materiale ed economica. “Ci si può chiedere se vestire gli ignudi e dar da mangiare agli affamati non ci avvicini al prossimo più di quanto riesca a fare la relazione spirituale proposta da Buber. Il fatto di dire “Tu” attraversa il mio corpo fino alle mani che donano, al di là della voce. E questo è conforme alla verità biblica. Incontro al volto di Dio non bisogna andare a mani vuote. Anche il Talmud proclama che dar da mangiare è una cosa grandissima e che l’amare Dio con tutto il cuore e con tutta la vita è superato a sua volta dall’amarlo con tutto il proprio denaro”. È conforme all’invito di Cristo: “Una cosa ancora ti manca: vendi tutto quello che hai, e donalo ai poveri e avrai un tesoro nei cieli; poi vieni e seguimi”. Solo in Dio – fonte di ogni ospitalità - l’uomo trova il senso della propria vocazione: essere ospite di Dio e amare l’altro come Dio lo ama.

 
(da Carmine Di Sante, L'io ospitale, Edizioni Messaggero; fonte: web)
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D
Non è bello fare copia-incolla di articoli che non c'entrano con il tema del post.
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F
Archeologia del mistero (2014) Al matematico Odifreddi<br /> <br /> I. Ipotesi sulla non creazione di Eva<br /> <br /> L’Uomo Erectus, nato in Africa un milione di anni fa, fu il vero padre ancestrale dell’Uomo Sapiens. L’Uomo Erectus possedeva una costola mobile, cioè delle reni, in più del Sapiens. Egli usò il fuoco. Anche l’uro, “bos primigenius” dipinto anche a Lascaux, possedeva una costola in più del dio toro, un dio non ancora antropomorfizzato a livello psichico. Il Sapiens, ossia Uomo di Cro-magnon, vero portento nella caccia, però, visse per un po’ a contatto con quello di Neanderthal, un antropofago per lo più europeo, dal carattere sessuale più libero, dicono i paleontologi, e che tingeva di ocra rossa i morti e decorava le salme con fiori in caverne dei Monti Zagros, tra Iraq ed Elam. Io suppongo che Lilith, come demone biblico, in vero fosse un Neanderthalensis e che mal si accoppiava col Sapiens. Quando, poi, in rito sciamanico, e dopo una sonnolenta glaciazione, nella primitiva tribù umana si volle paragonare a forza vitale una rara bellezza di Sapiens Sapiens, cioè Eva, prodotto di una mutazione, si disse che essa nacque da costola di un Uro/Adamo. Ciò parrebbe molto strano, ma io inviterei ad osservare le corna di bovide che sormontano l’uomo raffigurato seduto di fronte a una donna nel cosiddetto Sigillo della Tentazione, ritrovato in Iraq, dove compare sia un albero dai bei frutti che il serpente: fin dagli inizi della storia vi è una simbiosi tra l’uomo e un simbolo di potenza animale. Eva, come nome ebraico, è l’onomatopea del vagito, per questo è detta la Vita. Una domanda: se nella Sacra Bibbia di Eva ce n’era una sola, come mai quell’omicida patentato di nome Caino vi trovò moglie, nell'iranico Paese di Nod? Il nome Caino indica un fabbro e i primi siti dov’era praticata la metallurgia nella storia sono attestati in Iran, proprio dove egli fuggì.<br /> <br /> <br /> <br /> II. Sul mitico serpente<br /> <br /> Il serpente, collegato a misterico matrismo (non proprio un matriarcato), alla trasmigrazione delle anime, e studiato anche dalla Gimbutas, comparve in certe statuette in terracotta a somiglianza umana, di esseri nudi, a El Obeid, nel quattromilaseicentocinquanta a. C. (confronta data con l’inizio del calendario ebraico!). Il serpente prese ad essere adorato anche in Egitto tra i primi coltivatori di frumento, ed essi ebbero contatti coi primi mesopotamici, osservati certi manici ben lavorati di coltello in pietra. Il periodo di El Obeid accadde prima dei Sumeri, i quali non erano originari della Mesopotamia: insediativisi, canalizzarono la regione e vi fortificarono città-stato. El Obeid è una località presso l’antica Eridu; allora, sorgeva presso il mare, il Nar Marattu, ovvero Il Mare Orientale degli Accàdi. Anche in Oriente vi è un fiume che ci ricorda la lingua mesopotamica di Sargon di Akkad: l’indiano Narmada. Da non soltanto vasi del Belucistan, raffiguranti estinti bovidi, ma anche da tavolette in cuneiforme di antiche città della Babilonia noi sappiamo degli scambi marittimi con quel subcontinente asiatico. Esistevano, infatti, delle bulle in terracotta che contenevano allora gettoni e sigilli di vario genere per gli scambi commerciali e su questi spicca una specie di zebù. Ancora i segni dei sigilli della valle dell'Indo non sono stati decifrati, benché a mio avviso la parola dio sia una ruota e non dissimile dal raggiante "dinghir" sumerico-babilonese. Una domanda: se le statuette ofidie di El Obeid si ricollegano idealmente alla cosiddetta Tentazione, da chi furono scacciati quegli adamiti, dagli angeli o dai Gutei calati dai Monti Zagros? Forse dai topi, come accadde, poi, a suo tempo a esercito assiro? In questo caso, però, benché la Bibbia dica che l’assiro si ritirò dal campo di battaglia a causa di un angelo, non così è scritto in certi documenti in cuneiforme. Il non lontano giardino di Gu.edin.nah, sito tra le città di Umma e Lagash, un tempo era paradisiaco e fu persino proiettato in cielo come costellazione rintracciabile in Pegaso.<br /> <br /> <br /> <br /> III. Sulla Sfinge di Giza e una dissertazione sull’Esodo<br /> <br /> C’è un particolare nella Tavolozza di Narmer (protodinastia egizia, 3200 a.C., Museo delle antichità de Il Cairo) sfuggito all’esame degli esperti. Su una sua faccia, e lì dove Narmer indossa la corona bianca, ben si nota il falco solare sul corpo, come insabbiato, di un’asiatica sfinge coronata da steli di papiro. Stesso copricapo egizio, persino la barbetta poi perduta dalla Sfinge di Giza. Secondo me, essa era la base scultorea per la Sfinge di Giza e la sua testa venne riscolpita all’epoca di re Chefren, mentre gli arti di leone le furono aggiunti scavando alla sua base, ma la sua fattura è chiaramente più antica e appartenente al Popolo del papiro, quello che la Bibbia chiama Misraim. Ma Misraim non è Misri, l’Egitto predinastico non è il dinastico! Se, peraltro, osserviamo la storia dell'Egitto per come ci viene descritta da reali documenti, possiamo individuare persino il vero faraone dell'Esodo biblico in Amenofi II, figlio del valoroso Thut-mosi III, quello di 17 campagne belliche contro il Popolo di Mitanni per la conquista di Meghiddo, in Palestina. Secondo l'archeologo Gardiner, durante la seconda spedizione il suo dio Amon circondò i nemici con larghi fossati di fiamme e fumo: che ciò siano le famose colonne di fuoco con cui si annunciava il dio israelitico non mi par dubbio, ma da parte di astrofisici e alcuni archeologi molto noti, come il Di Cesare, ciò è riconducibile a un impatto meteoritico che causò la caduta di antiche civiltà, come in Mesopotamia così altrove. Di sicuro un meteorite si trova nella Ka’ba della Mecca. Certo, questioni astrofisiche, come eclissi di luna, registrate dagli antichi spostano datazioni di certi eventi. Stando così le cose, primo: Abramo, come patriarca, aveva avuto una schiava egizia di epoca hyksos, dunque fu vissuto all'epoca di Hammurabi di Babele (non di Babilonia, che è una regione!) e di Ariok di Ellasar, ovvero Rim-Sin, re di Larsa, e di Kedorlaomer, alias Kudur-Lagamar di Elam (chi cerca trova un bel libro di Arborio Mella); secondo: Gerico fu, invece, presa e incendiata solo ai tempi di Ekh-en-Aton, e lo fu a causa dei Habiru (come già sosteneva Sigmund Freud in uno dei suoi saggi psicoanalitici su Mosè, e anche un dimenticato Sir Marston), quindi ai tempi di rilassatezza politica, non essendoci ignoto che molto più tardi Ramesse II si recò in Galilea, nel 1272 a. C., mentre più a Nord proprio la città di Gerico era vuota e deserta da molto, molto tempo. E c'è da chiedersi come mai la Bibbia (pare che re Giosìa, poi ucciso in battaglia da faraone, ne abbia trovato una versione nelle profondità segrete del Tempio di Salomone. Chissà se la adottò come testo ufficiale!) ci descriva cose in altra maniera. Cosa si vuole forse nascondere, che Ramesse II, anni dopo la battaglia di Qadesh, fece un'alleanza di mutua assistenza con gli Ittiti anatolici e che essi si divisero tutti i terrritori e i gruppi umani nelle terre di mezzo? Di certo Mer-en-Ptah, successore al trono di Ramesse II, disperse tribù ribelli nel deserto, e tra di esse vi cita una tribù di nome Israele, non già quel futuro regno. La notizia di ciò fu scolpita sulla stele nera guarda caso già appartenuta a Amenofi II (Amen-hotep). In conclusione, accennando a notizie dell’egittologo Donadoni in cui Israele persino partecipò a campagne belliche in Egitto ai tempi dei Persiani e a quelli di Bagoa, allora governatore di Giudea, in cui in Alto Egitto, a Elefantina, venne costruito tempio dedicato a Geova, se si vuole proprio credere veritiera la parola del biblista, la Legge dei padri fu, però, compilata quando i due scettri non avevano più influenza sulle province costiere: solo dopo Ramesse III, che sconfisse nel delta del Nilo i cosiddetti Popoli del Mare, solo allora si potè dichiarare che la regina Nefert-ari, moglie di Ra-messes, si fu infatuata di un certo Mosè, senza incappare nella vendetta dei faraoni contro la calunnia (ma forse di Mosè ne esistettero più di uno e, come scrisse il giornalista americano Lehrner, uno era solo egiziano: egli attraversò le paludi del Mar Rosso e fabbricò serpenti in rame nell’oasi sinaitica di Qetta con fonderie, appunto, egiziane). Una certa bestia ha diecimila occhi e orecchi dappertutto e riferisce tutto al visir.
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